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Viva le donne, non l’8 marzo

Rapido excursus nell’universo femminile di oggi


Da sempre ho guardato con infastidito distacco la celebrazione dell’8 marzo, una data scelta per poter strombazzare ai quattro venti (e solo per 24 ore, mi raccomando…) la naturale eguaglianza tra uomo e donna che, per quanto naturale appunto, ne risulta artificiosa e posticcia laddove imposta a tempo determinato.

L’ho sempre ritenuta una forzatura che lascia il tempo che trova dal momento che chi la giudica una ovvietà, la ritiene inutile e controproducente, mentre chi la contesta ne trae forza per i restanti 364 giorni dell’anno dedicati all’oblio.

Per anni la rivendicazione sacrosanta di una parità tra i sessi si è vista celebrare nei ristornati, tra rametti di mimosa e night club con spogliarelli maschili, sempre con un occhio all’orologio, perché dal 9 marzo, sarebbe ripreso il lockdown, termine molto in voga ultimamente ma perfetto per descrivere la situazione.

E vogliamo parlare delle “quote rosa”, l’odiosa trovata di qualche burocrate ispirato da chissà quale folgorazione tra un “F4, colpita” e un “F5 affondata”?

La soluzione è la Cultura, come sempre, e non l’imposizione coatta di una manciata di ore destinate a ciarlare su come tutto debba cambiare per poi gattopardescamente non cambiare nulla. La Cultura.

Le “quote rosa”, tra l’altro vera e propria legge iniqua e auto castrante, sono frutto di una mentalità superficiale e marchettara, che impone una scelta forzata a ricoprire dei ruoli non per effettive capacità e competenza ma per imposizione, piazzando in posti dove necessiterebbe la meritocrazia, donne magari incapaci ma privilegiate dalla carta d’identità. Intendiamoci, a scanso di equivoci, una incapacità trasversale e che, quella sì, non fa questioni di sesso o di razza.

Ma perché la soluzione è la Cultura? Perché solo con un cammino lungo e incisivo si può raggiungere una parità consapevole e non più “concessa” dall’uomo padrone.

Avete mai riflettuto sulla differenza esistente tra i Paesi scandinavi, l’Occidente e il Medio Oriente, circa la realtà femminile?

Semplificando (si tratta pur sempre di un articolo e non di un trattato accademico), basterà citare tre nomi per capirne il senso: Skjaldmær, la Madonna e il Burqa.

In cosa consiste la figura della Skjaldmær? Era la donna guerriera vichinga, narrata da Saxo Grammaticus ne “Gesta Dannorum”, che pur dovendo badare alla casa durante le lunghe assenza degli uomini, non esitava a difendere il proprio villaggio, a fare affari e persino a governare, come narrato dal Domesday Book di Gugliemo il Conquistatore del 1086. Insomma, la diversa possanza fisica tra uomini e donne imponeva ruoli ben precisi sui compiti da svolgere, ma nella pratica non c’erano reali impedimenti a che una donna svolgesse determinate attività.

Il risultato è visibile nella odierna sostanziale parità tra i due sessi e nella larga presenza delle donne in ruoli di governo e di comando nei Paesi nordici.

Loro hanno avuto le valchirie.

E da noi? Da noi la Madonna, Maria, ha partorito verginalmente Gesù, perché la “conoscenza” (carnale) era atto impuro e nel corso dei secoli la figura della Beata Vergine è stata modellata ad uso e consumo di una società rigorosamente maschile.

Risibile l’ecumenismo della Chiesa cattolica che allo stesso tempo confina la donna in ruoli secondari e funzionali al potere maschile, ultima riprova il motu proprio “Spiritus Domini” di Papa Francesco che “consente” alle donne l’accolitato e il lettorato, strombazzato come una concessione epocale ma che, ai miei occhi e forse ai vostri, suona tanto come un croccantino lanciato al cane.

Infine il Burqa. Se Atene piange, Sparta non ride.

Le donne in Arabia Saudita, hanno ottenuto il permesso di prendere la patente di guida (sempre che il Wali, una specie del nostro governatore regionale, conceda il benestare), alleluia!

Laggiù le donne indossano il Burqa (tipico indumento che le copre dalla testa ai piedi) e quando vengono a vivere in Occidente pretendono, gli uomini, che mantengano questa usanza.

Che fare? Si rispettino leggi e costumi locali e non si inseguano ipocrite chimere anarcoidi, in nome delle quali si punta ad un annientamento di qualsivoglia identità nazionale, rifiutando il confronto politico, culturale e sociale necessario per una crescita reale e profonda della società preferendo, in nome di un devastante accoglimento nichilista di qualsivoglia istanza, l’innesto forzoso e inquinante di usanze retrograde e liberticide.

Come in Svizzera: ennesimo referendum sull’uso del Burqa, l’altro giorno, risultato 20 cantoni su 26 hanno detto “No”, in casa nostra si rispettano le nostre leggi, ogni persona deve essere riconoscibile e se ciò non aggrada, la porta è quella.

Un cambiamento vero, sentito, sincero quindi è possibile, persino auspicabile ma deve innestarsi naturalmente, senza imposizioni che celino volontà nichiliste, vuoi per motivi economici (più disperati ci sono meno alto è il costo della mano d’opera), vuoi per motivi politici (si salti la dittatura del proletariato di stampo marxista e si approdi direttamente all’anarchia).

Viva le donne quindi. E il miglior augurio che si possa fare loro e che vincano le tante battaglie, dure e impegnative che ancora dovranno affrontare e non la conquista di una quota rosa, anacronistica e deleteria, vero simbolo di una superiorità maschile che concede, dall’alto del suo potere.


Marco Milani

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